N. 11 Decisione 28 gennaio 2014 nei confronti dell’arch. G (inc. 2013/2)

  • La Commissione di disciplina non può intervenire nei confronti di un ingegnere o di un architetto se i fatti in esame risalgono a oltre cinque anni. Prescrizione dell’azione o perenzione? (questione lasciata aperta).
  • Presupposti d’intervento nel caso di denuncia per cattiva esecuzione del contratto d’architetto.

  • Data:
  • 28.01.2014

Riassunto dei fatti:
contro lo stesso architetto si sono rivolti -dapprima al Segretariato OTIA e poi alla Commissione di vigilanza- due committenti, entrambi lamentandosi per numerosi difetti riscontrati nelle rispettive abitazioni (case unifamiliari).
In entrambi i casi, il litigio era approdato davanti al giudice civile che, parzialmente o integralmente, aveva loro dato torto (una delle due cause era giunta fino al Tribunale federale). Ciò nonostante, essi speravano in questa sede di vedere sconfessato quell’esito e di ottenere la radiazione dell’architetto dall’Albo dell’Ordine.

Diritto:
Secondo l’art. 19 cpv. 4 LEPIA che tratta dei procedimenti disciplinari, “l’azione si prescrive in 5 anni dalla commissione dell’infrazione”.

Tuttavia, non è perfettamente chiaro se per “prescrizione” debba qui intendersi “prescrizione” o “perenzione”, dal momento che nel diritto pubblico il primo termine è spesso usato per intendere il secondo, dovendosi così correttamente procedere a un’interpretazione della norma a seconda dello scopo voluto dal legislatore (ANDRÉ GRISEL, Traité de droit administratif, vol. I, 1984, pag. 663; PIERRE MOOR, Droit administratif, vol. II, Bern 2002, pag. 88; ADELIO SCOLARI, Diritto amministrativo, Parte generale, ed. 2 – 2002, n. 709).

I materiali legislativi concernenti la LEPIA –su questo tema- non sono di nessun aiuto, motivo per il quale vanno fatte considerazioni d’ordine generale. L’istituto della prescrizione, così come conosciuto anzitutto nel diritto privato, può so portare all’estinzione di un credito , ma dipende dalla volontà e dall’attività del creditore. Nel diritto pubblico esso esiste per lo più nei rapporti creditori fra lo Stato e la cittadinanza –nelle sue diverse apparizione e indipendentemente dal ruolo rivestito dall’uno e dall’altro soggetto– oppure tra due soggetti di diritto pubblico. Anche il Tribunale federale ha giudicato che la prescrizione si applica a tutte le pretese di diritto pubblico, segnatamente alle pretese della collettività o degli amministrati, sia di natura patrimoniale, sia di prestazioni in natura (GRISEL, op. cit. pag. 661; MOOR, op. cit., pag. 83 e rif.; HÄFELIN/MÜLLER, Allgemeines Verwaltungsrecht, Zurigo 2002, pag. 165 e 166; SCOLARI, op. cit. n. 689). La norma della LEPIA che qui ricorre ha invece lo scopo evidente, come in genere accade nelle procedure disciplinari, di corrispondere al principio generale della sicurezza del diritto –in particolare nei confronti dei professionisti coinvolti in una fattispecie di natura disciplinare– affinché il rapporto fra l’ordine e il socio OTIA sia chiarito entro un determinato lasso di tempo (cfr. MOOR, op. cit., pag. 88) e inoltre, in funzione della procedura, che i fatti possano ancora facilmente essere accertati. A prescindere dall’esistenza di un parallelo procedimento penale (che in concreto non è dato), l’interesse del legislatore appare così quello di porre un limite di tempo estintivo alla possibilità dell’autorità disciplinare di sanzionare una fattispecie, trascorsi cinque anni dai fatti. La questione della natura di questo termine può comunque restare irrisolta, dal momento che nel diritto disciplinare, si trattasse anche di prescrizione, non se ne conosce la possibilità d’interruzione, mentre la sospensione sarebbe semmai limitata –come già accennato– all’avvio di una procedura penale; lo scopo della norma rimane infatti quello di concludere al più presto contenziosi di natura disciplinare (DTP 105 lb 70). Non è controverso che la perenzione –tanto nel diritto privato quanto nel diritto pubblico– dev’essere rilevata d’ufficio (SCOLARI, op. cit., n. 713). (consid. 9).           

Stando così le cose, appare determinante stabilire quando debba essere considerata avvenuta la commissione della pretesa infrazione. In entrambi i casi in esame, dal momento che l’attività messa in campo dall’architetto ha carattere continuativo, appare corretto prendere in considerazione l’ultimo intervento del professionista relativo a ogni mandato. Com’è generalmente riconosciuto il termine decorrerà dal giorno in cui è stato compiuto l’ultimo di una serie di atti successivi, rispettivamente – in caso di attività continuata– dal momento in cui la continuità è cessata (cfr. ad esempio, SCOLARI, op. cit., n. 1043); ciò che potrebbe coincidere –a seconda dei casi e non necessariamente– con la fine dei lavori, o con la consegna dell’opera o con il collaudo della stessa. (consid. 10).                                                                                                       

Conclusioni:
Per quanto riguarda al prima denuncia, l’attività dell’architetto dev’essere considerata terminata a fine giugno 2006, ossia quando lo stabile era stato abitato, rispettivamente quando per il medesimo era stata ottenuta l’abitabilità (nel mese di agosto successivo). La scadenza del termine quinquennale si colloca pertanto nell’agosto del 2011. Nel secondo caso, l’inizio del termine risale addirittura al mese di settembre 2001, così come accertato dai giudici civili di prima e di seconda istanza a proposito della fine dei lavori. La decisione conclude così che “l’attualità giuridica delle due segnalazioni nei confronti dell’architetto è assolutamente da escludere, dovendosi addirittura osservare che entrambe le fattispecie non solo sono attualmente vecchie di anni, ma sono persino venute a conoscenza di questa Commissione, rispettivamente del Segretariato OTIA, quando già era intervenuta la prescrizione/perenzione. Non esiste pertanto nessun motivo che giustifichi di affrontare nel merito l’esame di entrambe le fattispecie”.

Osservazioni:
A titolo abbondanziale, la decisione –anche a fronte dell’ampiezza assunta dalle denunce- si pone la questione della verifica dei presupposti affinché un cosiddetto “errore dell’arte” possa essere considerato anche nell’ottica della deontologia. Al proposito si è voluto precisare: In particolare l’art. 6 del Codice deontologico elenca i doveri verso i committenti, riferiti a determinate fattispecie che caratterizzano l’ambito contrattuale. Al proposito non si può affermare che il catalogo dell’art. 6 si esaustivo; tuttavia, le situazioni indicatevi possono essere tutte ricondotte –in modo e in misura diversa– al principio della buona fede nell’adempimento del contratto da parte del professionista, ciò che si configura per lo più come rispetto della correttezza personale e professionale verso la committenza, rispettivamente nella presentazione della propria persona e delle proprie capacità professionali. Non si può escludere che anche l’errore tecnico, ossia professionale nello svolgimento di un mandato o di un appalto possa essere assimilato a una delle fattispecie prese in considerazione dal Codice deontologico o –prima ancora- dalla LEPIA, ma non necessariamente– per giungere a tanto, l’errore deve contestualmente essere connotato da quella riprovazione dell’agire professionale che caratteristica di un atteggiamento lesivo della buona fede nei rapporti contrattuali.

In ogni caso chi, come la Commissione di vigilanza, è chiamato a giudicare una fattispecie che si basa in modo prevalente sull’insoddisfazione della committenza per il lavoro svolto, deve anzitutto essere informato –almeno indicativamente– su quegli aspetti della fattispecie che comporterebbero una lesione dei doveri deontologici; in linea di massima, non è infatti pensabile che l’autorità sia in grado di eseguire autornomamente un esame dell’accaduto per individuare momenti di carattere deontologico, almeno quando si trova di fronte a non a uno, ma a una serie di rimproveri di natura tecnico-costruttiva, oltre tutto relativi a un lasso di tempo continuato che si estende alla progettazione all’esecuzione della costruzione in ogni sua fase, fino alla consegna dell’opera.

Inoltre, ai fini di un giudizio equo, dovrebbe essere verificato se i rimproveri mossi dalla committenza all’architetto o all’ingegnere corrispondano effettivamente a errori od omissioni professionali, sulla base di accertamenti che necessiterebbero di un serio supporto cognitivo, verosimilmente di natura peritale. Orbene, nei due casi in esame è ben vero che le perizie non mancano e che la serietà dei loro autori non può essere messa in dubbio, ma non va dimenticato che l’architetto non ne condivide le conclusioni e che i giudici civili che hanno esaminato le stesse fattispecie non hanno posto quegli accertamenti alla base delle loro decisioni, già perché l’esito delle due controversie –che hanno comunque visto soccombere i committenti– è stato determinato solo in minima parte da tali prove. (consid. 8).                          

Sanzione:
nessuna.



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